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Immagine del redattoreAndrea Camparsi

Il Tristano e l’Italia. Un’accoglienza complessa nelle voci della critica




Il 25 luglio 2024 si inaugurano i Bayreuther Festspiele con Tristan und Isolde.


Sempre il 25 luglio ma del 1886 fu una data significativa per la storia dei Festspiele: Cosima Wagner porta in scena per la prima volta sul palcoscenico di Bayreuth Tristan und Isolde sotto la direzione musicale di Felix Mottl.


In una lettera del 27 settembre 1885, Cosima aveva voluto ringraziare ancora una volta Ludwig II di Baviera per aver accettato di assumere il protettorato dei Festival (avrebbe per l’ultima volta forse il re sovvenzionato economicamente l’impresa voluta anni orsono dall’amico Wagner o si trattava di un protettorato simbolico, atto ad aggiungere blasone ai Festival del futuro?).


Nella lettera a Ludwig, Cosima propone al re una riflessione filosofica che prende avvio dal primo abbozzo del terzo atto del Tristan. In origine, Parsifal avrebbe dovuto far visita al cavaliere morente nel suo castello di Kareol per proporre, prima della sua uscita di scena, una profonda riflessione:


Il mondo intero non è altro che un'unica ansia implacata!, e come può del resto essere giammai placata?” 


Cosima dunque presenta una possibile risposta a Ludwig:


Parsifal costituisce dunque la risposta alla tremenda domanda del Tristano: la morte d'amore è apportatrice di beata quiete – quale segno di pace – per gli amanti, ma non per il mondo.”

(Cosima Wagner, La mia vita a Bayreuth. 1883/1930, trad. it. di U. Gandini, Rusconi, Milano, 1982, pp. 55-56). 


Questi erano i pensieri che attraversavano in quei mesi la mente di Cosima che, dopo la morte del marito nel 1883, cercava di risollevare se stessa e le sorti dei Festival proponendo anche titoli che mai erano stati presentati finora nel teatro della verde collina.


E in Italia?


Dopo le prime bolognesi di Lohengrin (1871), Tannhäuser (1872), Der Fliegende Holländer (1877) e Rienzi (1876), il 2 giugno 1888,  sempre al Comunale, è la volta di Tristan und Isolde.


Leggiamo dalle vive voci dei critici dell’epoca, in articoli della “Perseveranza” e de “La Lombardia”, disponibili nella nostra Biblioteca Wagneriana Digitale, come la ricezione di un’opera così complessa avesse destabilizzato pubblico e critica.


Se Cosima proponeva al re di Baviera riflessioni approfondite, pensate, sofferte, anche per la vicinanza della vedova all'arte del marito, ma anche per la diversa sensibilità che una parte della Germania intellettuale stava gradualmente acquisendo nei confronti dell'opera di Wagner, l'Italia era ancora legata profondamente alla tradizione del melodramma.


La drammaturgia, per il pubblico e la maggior parte dei critici dell'epoca, era sostanzialmente ridotta alla trama dei libretti. Un testo filosofico, ricco di implicazioni metafisiche e di riflessioni sull'amore e sulle sorti del mondo, metteva a repentaglio la tranquillità e la routinaria fruizione del teatro borghese dell’epoca.


Purtroppo l'unico critico che avrebbe potuto comprendere appieno la portata artistica e intellettuale dell'opera di Wagner, ovvero Filippo Filippi, era scomparso assai prematuramente il 24 giugno 1887, pertanto lo stesso giornale che aveva accolto nelle sue pagine argute riflessioni sull'opera del Meister dovette affidarsi alla penna di Giovanni Battista Nappi, già critico per la stessa testata, ma non di certo preparato e appassionato wagneriano come il collega. 


La prima bolognese, cantata in italiano nella traduzione di Arrigo Boito, fu diretta da Giuseppe Martucci con un successo caloroso.


Nappi ricorda nel suo articolo del 3 giugno 1888 che gli artisti furono chiamati 5 volte sul palcoscenico per ricevere gli applausi. Il direttore Martucci fu colui che riuscì a tirare le fila di un lavoro complesso e lontanissimo dalla tradizione italiana. 


In un lungo articolo sulla Perseveranza dell’11 giugno 1888, Nappi cerca di giungere a una sintesi di ciò che aveva visto e ascoltato il 2 giugno a Bologna.


Ci si rende subito conto che l'esigenza del critico non corrisponde a quella del compositore: se Wagner cerca una riflessione filosofica sull'essenza dell'amore e del mondo a partire dalla filosofia di Schopenhauer, il critico italiano cerca una drammaturgia costituita da una trama di azioni ma giustamente non la trova.


I quadri presentati dall'opera di Wagner sono per Nappi troppo lunghi, troppo statici, troppo verbosi e quindi comprensibili soltanto da un pubblico di “addetti ai lavori”. 


In un articolo di qualche giorno prima, Nappi aveva infatti ricordato come la lettura stessa dell'immenso spartito dell'opera wagneriana lo avesse portato alla resa.

Il critico però non vuole presentarsi né come wagneriano né come anti wagneriano:


Abbiamo oggi, un contrasto, un dibattito vivacissimo di giudizi e di impressioni. Da un lato ammiratori fanatici, dall'altro demolitori vandalici. Nessuna via di mezzo. Quanto sarebbe indicato in tale momento il motto di Ovidio: Medio tuttissimus ibis! ["nel mezzo camminerai sicurissimo!”] La sentenza, forse troppo logora pel troppo uso, è però sempre opportuna, specialmente nelle questioni d'arte in cui dovrebbe servire di parola d'ordine, di indirizzo, onde far davvero scaturire, dalla matura riflessione, apprezzamenti concreti, retti, utili”.


Nappi continua il lungo articolo presentandosi quindi alfiere della virtù del mezzo.


Codesto lavoro va giudicato nelle sue linee generali, tanto come poema drammatico, quanto come concezione musicale”.


Ma poche righe più sotto, dopo aver riassunto l'azione, Nappi se ne esce con questa frase:


Per costituire un dramma su questa semplicissima traccia non ci voleva altri che Wagner. Ma non si potrà certamente dire che egli, malgrado l'arte raffinata e la rara vivacità dell'immaginazione, vi sia totalmente riescito”. 


Nappi addirittura sottolinea come Wagner non avrebbe dovuto accettare la mitica leggenda nella sua semplicità primitiva poiché essa non basterebbe a costituire un progetto teatrale propriamente detto. Per renderlo tale, Wagner avrebbe dovuto conferire “maggiore varietà e vivacità di episodi [infatti] tolto il primo atto, che è veramente indovinato, l'azione langue e spesso manca affatto negli altri due”.


Poco sotto ecco un’altra frase davvero significativa:


I wagneriani puri per attenuare questo lato debolissimo del poema [cioè la mancanza di azione oppure la risibilità della scena di Marke che subirebbe l’umiliazione impartita da Tristan senza batter ciglio, NdA], dicono che il Tristano e Isotta non è un'opera teatrale. Sono lieto di essere pienamente del loro avviso”. 


Quindi Nappi sottolinea più e più volte come secondo l'opinione stessa dei wagneriani questo dramma non ha i requisiti del teatro così come la musica spesso non risponderebbe alle esigenze sceniche.


Forse per fare troppo, Wagner riuscì spesso al contrario”.


Se per Wagner l’opera non è una creazione esclusivamente musicale ma è il completo connubio della poesia con la musica, dovrebbero questi due elementi, secondo Nappi, dividersi in parti uguali ma nel Tristano la musica avrebbe la netta prevalenza.


Questo agglomerato di concetti, affidati all'orchestra, facilmente riconoscibili nei loro svolgimenti da un orecchio ben esercitato, questa irrequietezza continua di idee, di figurazioni sminuzzate, torturate da svariate combinazioni contrappuntistiche, riescono spesso ad una così esuberante sonorità da soffocare le voci, nei quali non possono sempre adempire il loro compito, della declamazione cantata, perché costrette, per far valere le loro ragioni, alla declamazione... gridata!


Nelle righe successive Nappi riconosce però che forse tutte queste debolezze riscontrate nella partitura wagneriana non siano da addebitare a Wagner stesso ma forse alle orecchie italiane troppo abituate all'azione del melodramma e ai libretti spesso non così arguti e sapienti come sono i testi del genio di Lipsia.


La conclusione della rassegna musicale di Nappi dell'11 giugno è questa:


Non mi meraviglierei che, dopo questo successo, altri centri artistici italiani si invogliassero di riprodurre il Tristano. Ma sarà poi possibile di trovare un complesso così omogeneo, un'orchestra e un direttore altrettanto approfonditi nella musica di Wagner, ed un pubblico come questo di Bologna di gusto così fine e notabile per la nobiltà e l'elevatezza dei criteri artistici?”.


In effetti, la domanda di Nappi, letta a posteriori, non risulta poi così campata in aria.


Basti pensare che dopo la prima bolognese, il Tristano dovette aspettare il 1897, specificamente il 14 Febbraio, per tornare sulle scene italiane a Torino presso il Teatro Regio.


Successivamente l’opera andò in scena a Trieste il giorno di Natale del 1899, alla Scala di Milano il 29 dicembre 1900, al Teatro Alighieri di Ravenna l'undici maggio 1902 e a Roma al Teatro Costanzi il 26 dicembre 1903. Negli anni successivi fu il turno di Brescia (1906), Napoli (1907), Parma e Genova (1908), Palermo e Cesena (!) (1909) e Verona (1911).


Se si leggono con attenzione le date e il susseguirsi delle prime rappresentazioni nelle maggiori città italiane, si può notare che la lunga pausa tra la prima bolognese e la prima torinese diede poi il là per una serie di rappresentazioni ravvicinate negli altri centri della penisola.


Ciò che è certo è che l’eco della grande arte wagneriana arrivò in Italia con un comprensibile ritardo non solo cronologico ma anche culturale.


Non dobbiamo pensare però che la vita teatrale di Bayreuth rispecchiasse la vita teatrale di tutta la Germania poiché, leggendo le riflessioni e le critiche dei primi wagneriani tedeschi di fine Ottocento, il Reich stesso era abbastanza restio nell'accogliere e nel comprendere la lezione del suo grande maestro.


La domanda di Cosima era in effetti uno spunto di riflessione che pochi all’epoca avrebbero potuto cogliere: forse gli intellettuali del Bayreuther Kreis impegnati però nell’esaltazione etnica e razziale della cultura tedesca.


Non di certo la maggioranza del pubblico e dei critici di allora… E di oggi?...


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